Culto: sulle tracce di un'antica devozione
Alla ricerca dell'Altare perduto: la contesa per il Santo
Ogni comunità che si rispetti ha un proprio Santo Protettore. E' indiscutibile, quindi, che la nomea di un paese dipenda non solo dai tributi di devozione e di affetto che vengono riversati dai fedeli al loro Patrono ma anche dalla cura che viene posta per una sua adeguata custodia. Se poi questi gode di un carisma non comune per la particolare forza taumaturgica manifestata in diverse circostanze allora gli onori dovuti assumono forma di assoluta venerazione e la sua protezione diviene una prerogativa di non trascurabile considerazione.
Ma che succede se il Santo, appunto per le sue virtù straordinarie, viene ceduto in prestito ad un paese vicino e, con la scusa di voler beneficiare un pò più a lungo delle sue grazie, non viene restituito ai suoi legittimi fedeli?
La contesa riguarda Sant'Erasmo, Patrono della Città e protagonista inconsapevole della vicenda, ma gli avvenimenti, secondo testimonianze tramandate dai nostri bisnonni nei loro racconti fatti accanto al focolare nelle sere fredde d'inverno, vedono coinvolti gli abitanti di Capaci e di Isola delle Femmine, negli anni tra il 1835 ed il 1837.
In quel tempo il colera imperversava su gran parte dell'Italia meridionale seminando ovunque morte e desolazione.
La tradizione vuole che proprio Capaci venisse risparmiata dal contagio mentre in tutti i paesi del circondario la situazione si faceva ogni giorno più disperata. In questo frangente era evidente che la cosa non poteva passare a lungo inosservata; ed, infatti, di lì a poco, qualcuno pensò bene di collegare la provvidenziale circostanza alla presenza davvero prodigiosa del Santo Patrono e di diffondere la voce che l'immunità dal male fosse proprio opera Sua. E poichè il pericolo non accennava a diminuire, apparve del tutto naturale la richiesta avanzata dagli abitanti di Isola delle Femmine (tra l'altro tutti originari di Capaci ed allora non ancora amministrativamente autonomi) di poter venerare il simulacro del Santo nella loro chiesetta per un periodo di otto giorni al fine di intercedere la protezione dall'epidemia. Fu così che il Santo, con la paterna benedizione dell'Arciprete, Don Vincenzo Bologna, e l'entusiastico consenso di tutta la Confraternita, venne accompagnato nel Borgo di Isola in grande e solenne processione.
Trascorsi gli otto giorni i capacioti ne attesero la restituzione, ma invano; anzi, con mal celato disappunto, si videro costretti a fare, come suol dirsi, buon viso a cattivo giuoco: a cedere, cioè, alla richiesta di un'ulteriore proroga di pari durata. Alla scadenza, tuttavia, l'impegno venne ancora una volta disatteso così che cominciò a farsi strada ed a rodere come un tarlo il sospetto che gli isolani volessero trattenere per sempre la statua del Santo. Vennero presi gli opportuni contatti e si accesero discussioni a non finire senza che si venisse a capo del dilemma.
Ad un certo momento il disegno degli isolani apparve in tutta la sua incredibile evidenza: l'intenzione, cioè, che molti avevano intuito ma che nessuno aveva osato manifestare, di tenere per sé il Santo con il pretesto che in fondo erano stati proprio loro, gli isolani, a introdurne il simulacro ed il culto dalla lontana Città di Gaeta ove in passato si erano spesso spinti con le proprie barche, tacendo, opportunamente e/o per dispetto, sulla loro originaria cittadinanza capaciota in quel tempo.
La pretesa, anche se non inaspettata, fece lo stesso effetto di un fulmine che scoppi a ciel sereno. La situazione si fece tesa e minacciò più volte di precipitare mentre il malumore continuava a salire come una febbre.
Antichi dissapori campanilistici, che traevano la loro origine dall'aspirazione indipendentistica del borgo marinaro fin da tempi molto lontani, aprirono nuovi solchi e tensioni che finirono con il frapporre un muro di diffidenza, di incomprensioni e di esasperazioni e dividere gli abitanti in "pacifisti" e "interventisti"; due schieramenti che cercarono di dirimere la questione, possibilmente senza complicazioni, il primo, o di ricorrere alle maniere forti, senza compromessi, il secondo. La mancanza di alternative complicò e rese sempre più insostenibile la contesa turbando profondamente le coscienze tanto da spingere amici e parenti delle due fazioni gli uni contro gli altri.
A questo punto la provvidenziale inventiva dell'Arciprete valse a placare gli animi ormai esacerbati fino all'inverosimile. Secondo lui la discordia non poteva offrire altra soluzione se non quella che i capacioti, guidati dallo stesso Don Vincenzo e dai Giurati del Popolo (Consiglieri), misero in atto qualche notte dopo: introdursi furtivamente nel Borgo, scardinare la porta della Chiesa e portar via la statua del Santo, ponendo così i contendenti di fronte al fatto compiuto.
Il drastico intervento sembrò fare rinsavire tutti e da allora per tradizione e devozione gli abitanti di Isola, nel giorno della sua ricorrenza (2 giugno), a piedi nudi compiono il consueto viaggio da Isola a Capaci per sciogliere i voti fatti al Santo, celando ancora probabilmente l'atavico, inconscio disappunto di non avere protetto a dovere l'inviolabilità dell'altare, anche se, per la verità, molti retaggi spirituali vanno ormai perdendo la loro identità estinguendosi fra la totale indifferenza delle nuove generazioni.
E' lecito ritenere, in ogni caso, che l'evento abbia alquanto accelerato il processo di liberalizzazione della borgata, comunemente nota con il nome di "Tonnara" o di "Capaci Jusu", se è vero, come è vero, che, a distanza di poco più di un decennio, e, cioè, a far data I° gennaio 1855, essa proclamava la propria completa autonomia amministrativa acquisendo la terza parte della superficie territoriale del Comune di Capaci pari a 35 kmq circa.