Arti, mestieri e professioni del passato  

       Arti e mestieri tipici del passato

       Intorno al 1900 diverse attività artigiane divennero tipiche di Capaci. Ci riferiamo all’arte del ricamo ma anche ai mestieri di saponaro, carrettiere, maniscalco e carradore, cordaio, stagnino, bottaio, calzolaio ormai in parte o del tutto travolti dal convulso ed inesorabile scorrere del tempo e dall’affannosa ricerca di tecnologie sempre più avanzate. Attività che, per adeguarsi alle necessità del momento o per seguire il mutare delle condizioni economiche e sociali, spesso vennero esercitate in maniera alternativa da molte maestranze, per cui divennero ben presto sinonimi della capacità e della laboriosità di questa cittadina essendo entrate prepotentemente a far parte inscindibile della nostra storia. 

       Ricamatrici

       Il lavoro del ricamo, eseguito per l’allestimento della dote delle ragazze di famiglia od anche per commissioni delle signore più facoltose del paese, a secondo dell’estensione del capo da ricamare, si svolgeva o con un “tilaru” (telaio) lungo, in cui bisognava lavorare a quattro mani, o con uno più maneggevole formato da due cerchi concentrici del diametro di 30 cm. circa, in cui veniva incastrato il tessuto. I punti maggiormente eseguiti erano i così detti punti sfilati: il 400, il 500, il 700; il punto ad intaglio, il punto rodi, il punto croce, il pittoresco, il punto norvegese. Ed accanto a questi punti impegnativi fiorirono pure quelli ai ferri, con i quali si facevano calze e maglioni, e quelli ad uncinetto, un piccolo arnese della lunghezza di 25 cm. circa e di diametro variabile fino a 3 mm., con il quale il disegno si sublimava in arte con la produzione di bellissimi copriletto matrimoniali, tende, centri da tavolo, tappeti e quanto di più fantastico e suggestivo suggeriva l'inventiva.

       Ormai le figure delle ricamatrici sono quasi del tutto scomparse ma i loro lavori continuano a rappresentare ancora oggi un inestimabile patrimonio artistico e culturale a testimonianza dell’ingegno e dell’operosità femminili per i quali la loro notorietà ha varcato i confini territoriali contribuendo a scrivere una delle pagine più belle nella storia dell'artigianato locale.

       Saponaro

       Accattivante anche se faticosa e poco remunerabile era la lavorazione per la produzione del sapone ottenuto utilizzando la “muria” (morchia, residuo dell’olio d’oliva) che il saponaro comprava nel frantoio locale ed in quelli dei paesi limitrofi o reperiva attraverso i “murialori” (commercianti che l’acquistavano in giro per i paesi). La muria veniva raccolta e conservata negli “utra” (otri, recipiente in pelle di capra) e poi lavorata con l’aggiunta di cenere (ottima quella di scorza di mandorle) il cui alto contenuto di potassio dava origine al processo dell’idrolisi alcalina degli acidi grassi. Il tutto veniva versato in una “quarara” (recipiente tipico) e fatto bollire nell’apposita “fornacella” (struttura o fornello in conci di tufo od in pietra lavica). Dopo cinque ore di cottura il sapone che via via si formava, attraverso dei tubi collegati, si riversava nelle vasche di raffreddamento da dove veniva rimosso e conservato in recipienti di latta od in barili, pronto per essere collocato in commercio. Il sapone prodotto a Capaci veniva usato per lavare la biancheria ed era prevalentemente di tipo molle e perciò veniva chiamato “trema-trema”. Il colore verde era ottenuto con l’aggiunzione di “pale” (foglie di ficodindia) nella prima fase di cottura.

       La figura del saponaro oggi è del tutto scomparsa, ma, come per tutte le arti ed i mestieri desueti, essa resta a testimoniare il valore e l’impegno prodigati per lo sviluppo economico e sociale della città, a memoria delle future generazioni.

       Una delle più rappresentative fu senza dubbio quella di “U zu Rusariu Pappatuni” (Rosario Troia) la cui attività, avviata alla fine dell’800 dal padre Giuseppe ed ereditata negli anni '30, venne molto apprezzata e diffusa in tutto il palermitano fin verso la fine del 1958.

       Andrea Troia, detto “Attareddu” e Antonino Troia, noto come “Peri Chiummu”, sono due altri tipici rappresentanti di questo mestiere duro ma affascinante di cui, per circa un ventennio dagli anni 1930 in poi, hanno contribuito a mantenere alto il prestigio suscitando un notevole interesse anche oltre i confini territoriali.

       Carrettiere

       Il carrettiere era un trasportatore di merci varie che andavano dai prodotti stagionali della campagna al materiale da costruzione, al carbone, al concime. Generalmente lavorava per conto di terzi (proprietari terrieri, commercianti e costruttori); raramente in proprio. Godeva, però, della proprietà dei mezzi di trasporto: carretto e cavallo. La forma di pagamento era quella a viaggio e la retribuzione veniva pattuita in base al percorso da compiere ed al tipo di trasporto. Il suo lavoro si svolgeva “stratuna stratuna” (sulle strade) ed i luoghi di sosta erano i “funnachi”, strutture coperte ove albergare assieme agli animali e ristorarsi con un “piattu 'i pasta agghiu e ogghiu” (pasta con aglio ed olio, oggi molto apprezzata dalle buone forchette come “pasta alla carrettiera”) o mangiare all’asciutto "pani cu cumpanaggiu” (pane con formaggio e olive).

      La sosta nei fundaci costituiva Il momento più bello della giornata poichè, oltre a concedere un meritato riposo dalla fatica del duro lavoro, favoriva lo scambio di esperienze e di informazioni utili ma rappresentava soprattutto l’occasione propizia per dare libero sfogo alla gioia del canto che spesso sfociava in gare spontanee e appassionate. I temi evocati erano quelli reali, ricchi di contenuti umani e sociali, spesso pervasi da un fascino e da una sensibilità creativa particolari, che inneggiavano alle gioie dell’amore e della vita od esprimevano una intensa, struggente malinconia per il tempo che fugge.

       Ragione di incontro erano poi le fiere di bestiame e le feste paesane, religiose e non, dove essi convenivano insieme alle famiglie con cavallo e carretto riccamente bardati e dove certo si coglieva sempre il momento opportuno per intonare anche a più voci le loro caratteristiche stornellate. E non era raro ascoltare i loro canti accompagnati dalle note arcaiche e vibranti del “marranzanu” (scacciapensieri) o dal suono voluttuoso e avvolgente del “fiscaleddu” (flauto) e dal frenetico tintinnio dei “tambureddi” (tamburelli) mentre il vibrare basso e profondo del “bummulu” (anfora di terracotta variamente dipinta che emette un suono quando vi si soffia dentro) scandiva ritmicamente i tempi. Occorre aggiungere che l’appartenenza alla categoria era avvertita con molto orgoglio poichè i carrettieri si consideravano profondi conoscitori della vita per le esperienze acquisite nel corso dei loro viaggi, come sentita era pure la distinzione tra “cacciari a misteri” (guidare il cavallo ad arte) e chi “caccia a fumeri” (guidare come un portatore di letame).

       Tra le figure più note (e sono veramente tante) ricordiamo: "U zu Cicciu Trotta" (Francesco Trotta), "Pippinu u piccialaru" (Giuseppe Vassallo), "Ciccu puccidduzzu" (Francesco Rizzo), "U zu paliddu mastrupaulu" (Paolo Rizzo) ed i fratelli Giuseppe, Giovanni e Antonio Puccio, intesi "Chianta Cipuddi", mentre l'unico fundaco esistente nel territorio ed ubicato in questo Corso Vittorio Emanuele - angolo Piazza Venezia - con un abbeveratoio antistante era gestito da Antonio Croce detto "'Ucca ranni".

       Di questo mondo così riccamente articolato non rimane quasi più nulla poiché il passaggio ad un nuovo mezzo di trasporto, quello  motorizzato, è stato naturale e senza soluzioni di continuità. Esso comunque è ormai parte della nostra storia recente e, seppure comincia a presentarsi in maniera frammentaria alla memoria di qualche anziano, ancora oggi conserva intatti i suoi valori affettivi nelle espressioni più caratteristiche della nostra musica etnica.

       Maniscalco e Carradore

       Fortemente correlati a quello di carrettiere erano due altri mestieri che, per molti aspetti, trovavano piena rappresentatività in “Mastru Roccu u firraru” (Rocco Enea) e “U zu Paliddu carritteri” (Paolo Sciara).

       Il primo attendeva all’attività di Fabbro nella sua attrezzatissima officina dalla lunga parete interamente adorna di tenaglie, lame, pinze e punteruoli vari, ove, oltre a realizzare cancelli, inferriate e balconate dalle forme molto belle e variegate od a costruire attrezzi per i contadini, esercitava anche il lavoro di Maniscalco dedito a preparare, davanti alla scoppiettante fucina, i ferri da applicare agli zoccoli dei cavalli ed i cerchi delle ruote dei carri, forgiandoli sull’incudine ancora roventi con abili colpi del suo pesante martello, a volte alternativamente e ritmicamente scanditi con l'aiuto di un aiutante.

       Il secondo svolgeva il mestiere di Carradore, ovvero, con l’ausilio di pialle, asce, seghe e scalpelli modellava il legname e con sapiente maestria riparava i raggi delle grandi ruote del carro o pazientemente ricostruiva e rendeva funzionali telai, stanghe laterali e freni rudimentali che ne costituivano i punti deboli.

       Mestieri ormai scomparsi con l’avvento di nuove tecnologie ma che hanno accompagnato a lungo un difficile periodo della nostra economia fino agli anni ’70 caratterizzando tuttavia in modo straordinario la grande vitalità del nostro artigianato locale.

       Cordaio

       Anche “u curdaru” (il cordaio) come luogo di lavoro aveva la strada. Per lui, infatti, qualsiasi spazio andava bene purchè abbastanza esteso e poco frequentato da consentire la stesura dei filati.: le lunghe vie strette ed ombrose o le solitarie piazzole retrostanti le chiese. Le operazioni di filatura erano il frutto di una grande maestrìa, acquisita in anni di esperienza, unita ad una speciale abilità nel coordinare i movimenti delle mani e dei piedi. L’attività nel suo complesso richiedeva la collaborazione esperta di più persone che in fasi contemporanee più che successive eseguivano le operazioni necessarie: la manovra a mano della ruota per imprimere movimento alle pulegge; il bagno in vasche di pietra in cui venivano immerse le matasse delle filacce; la lavorazione e la torsura delle corde stese ad una certa altezza da terra; la stesura per asciugarle.

       Ormai da tempo il mestiere del cordaio è caduto in disuso ma il ricordo di quanti lo hanno esercitato è tuttavia parte integrante della storia di questa comunità. E certamente Erasmo Vassallo, meglio noto come “’Raziu l’Ummira”, dal 1932 e per quasi un ventennio, ne è stato uno dei suoi più tipici rappresentanti.

       Stagnino

       Un mestiere che tuttora resiste al tempo è quello dello “stagnataru” o "stagnaru" (stagnino), un artigiano che per l’esecuzione della sua professione poteva contare su due luoghi: il laboratorio e le strade. Il lavoro consisteva nella riparazione, mediante saldature a stagno, di vari tipi di recipienti metallici: pentole, “quarare” (pentoloni), “quartare” (contenitori d’acqua in lamiera) ma soprattutto suppellettili di rame sulle cui parti interne stendeva un fitto strato di zinco che agiva da isolante contro le sostanze tossiche rilasciate dal rame a contatto con gli alimenti. Gli arnesi usati dallo stagnino erano: delle grosse forbici per tagliare le lamiere da utilizzare per i rattoppi; un ferro con manico termoisolante da immergere nella brace incandescente di un fornello per fondere lo stagno ed applicarlo nei posti dove era necessario; delle barrette di una lega di stagno e piombo (per le saldature dolci) e di una lega di zinco, rame e piombo (per le saldature più forti); dei martelli di varie dimensioni per sagomare i rattoppi di lamiera.

       Il più noto ed il più abile fu senza dubbio "Mastru Vicenzu u stagnataru" (Vincenzo Fontana) il cui laboratorio, fin verso la fine degli anni '60, era situato in questa centralissima piazza Calogero Troia.

       Bottaio

       Il bottaio o “vuttaru” era uno di quei mestieri che venivano considerati privilegiati e di difficile esecuzione. Il lavoro veniva eseguito a mano e consisteva nel sistemare delle listelle di legno, di preferenza di castagno o rovere (per le botti che dovevano contenere vini o liquori pregiati). Normalmente esse erano più larghe nella parte centrale e più strette alle estremità e variavano in numero e dimensioni in funzione della capienza della botte da costruire. Le listelle o toghe, perfettamente piallate, venivano sistemate una ad una in una forma circolare al cui interno la fiamma di un fornello sviluppava il vapore indispensabile per rendere il legno più duttile ed elastico alla lavorazione e facilitare la necessaria curvatura delle doghe, ma era essenziale anche per liberarle dalle sostanze tossiche del legno (il tannino), facilmente trasferibili nel vino. Per completare il lavoro occorrevano inoltre sei cerchi di ferro di diverse dimensioni e due coperchi o “timpagni” di diametro perfettamente adeguato ai fori finali della botte.  Era a questo punto che l’arte del bottaio si rivelava in tutta la sua magia: nel far aderire le toghe l’una all’altra e nel tenerle unite con i cerchi metallici fissati all’esterno con uno speciale attrezzo a forma di scalpello smussato, senza l’aiuto di collanti. Il prodotto finito era a perfetta tenuta stagna.

       Purtroppo la moderna tecnologia ed il ricorso massiccio a contenitori d’acciaio e di vetroresina hanno fatto scomparire il fascino di un mestiere così pregevole e privilegiato. Ma come tale la figura del suo esecutore è parte integrante della nostra esperienza storica pronta a ricordare alle future generazioni l’alto valore tecnico ed il grande prestigio delle nostre più belle tradizioni artigiane.

       In quest'arte eccelsero i fratelli Cappello, Antonio e Antonino (inteso "Nenè"), che degnamente hanno saputo dar lustro all'attività ereditata dal padre Calogero.

      Calzolaio

       Il mestiere più modesto era forse quello “du scarparu” (del calzolaio) ma sorprendono ancora oggi la solerzia, la pazienza, la passione con le quali l’umile artigiano attendeva al suo diuturno lavoro. Questo consisteva nel costruire scarpe su misura, aggiustare, risuolare, mettere i  sopratacchi e ricucire le parti che andavano deteriorandosi o magari rinforzare le suole con l'aggiunta di "tacce" (chiodi a testa particolarmente ampia e arrotondata) e "puntette" (sorta di ferri a forma ricurva collocati sulle punte e sui tacchi) per resistere meglio all'usura. La materia prima era costituita dalle pelli che potevano essere più o meno pregiate e le scarpe più o meno rifinite, accurate, solide e robuste secondo l’uso cui erano destinate. Gli attrezzi, ovvero gli strumenti indispensabili del suo lavoro, erano: i "fuimmi" in ferro (forme, modelli riproducenti la forma del piede), di varie dimensioni, nei quali venivano inserite le scarpe da trattare; “u trincettu” (coltello caratteristico e affilatissimo); il martello (anch’esso dalla forma particolare); tenaglia, lesina, spago, aghi, cera, pece, vetro per levigare le suole e tutta una serie di piccoli chiodi “a siminziedda” detti "zzippulicchi". Il tutto predisposto su un basso tavolo da lavoro, ovvero “u bancareddu”. La manifattura delle scarpe da lavoro, in particolare, si ispirava al principio della robustezza e della solidità per cui l’attività del calzolaio si è dimostrata sempre molto preziosa per le esigue finanze delle famiglie contadine.

       Uno dei più tipici esempi locali di questo mestiere è rappresentato senza dubbio da “Mastru Vartulu u scarparu” (Bartolomeo Giambona), una figura che rimane legata alla memoria di quanti lo hanno apprezzato per la sua capacità creativa e l’attacamento al lavoro davanti al suo “bancareddu” ordinatamente ripartito e, nelle luminose giornate estive, collocato all’aperto, a fianco della porta di casa, sul marciapiede di una delle più lunghe e antiche vie del centro storico, “A Vanedda Longa” o Via Francesco Crispi. Ma sono tanti e tanti altri gli esperti di questa attività che, per l'umiltà del loro lavoro e la straordinaria maestria d'esecuzione, affollano i nostri ricordi e perciò con grande rispetto citiamo almeno Francesco Paolo Abate, noto come "Mastru Paulu u scarparu", e Antonio Puccio, inteso "Mastru Nenè u scarparicchiu", nonchè "Mastru Ninuzzu" (Antonino Lo Bello) e Antonino Ignoto, inteso "u mutu", tenendo presente che, accanto a questi artigiani locali, altri ancora provenienti dai paesi vicini, per necessità o per passione, esercitavano l'umile mestiere in forma ambulante.

 

       Il segno dei tempi

       Poveri mestieri che, per diversi decenni ed, in generale, fino all'immediato dopoguerra, configurarono una condizione economica molto drammatica che tuttavia venne affrontata con lo spirito di laboriosità e di intraprendenza di sempre; doti di caparbietà che valsero al capacioto la nomea di "testa dura" e che segnarono per sempre il suo destino di cittadino del mondo pronto ad adeguarsi alle veloci trasformazioni dei tempi.